History of the Peloponnesian War

Thucydides

Thucydides. Della storia di Tucidide volgarizzata libri otto. Anonymous translator. Florence: Tipografia Galileiana, 1835.

Cosi parlò Atenagora ; ed alzatosi uno de' generali non volle che alcun altro si facesse avanti, e nel caso presente disse egli stesso : « non esser prudenza che alcuni si dicano de’motti scambievolmente, e che gli uditori vi acconsentano ; ma quanto alle cose annunziate ciascuno in particolare e la città tutta insieme dover vedere come prepararsi condegnamente a respingere il nemico assalitore. E se nulla verrà a bisogno non tornerà in danno che il Comune si sia provvisto di cavalli e di armi e d’ogni altra cosa di che si allegra la guerra. Noi generali avremo cura di queste forze e ne faremo il novero, e procureremo di spedir gente ad osservare le città, e quaut’altro sembri opportuno. E già in parte vi abbiamo pensato, e tutto ciò che sapremo lo riferiremo a voi ». Avendo cosi parlato generale, i Siracusani si sciolsero dall’adunanza.

E già gli Ateniesi con gli alleati erano tutti a Corfù, ove i capitani fecero primieramente la rassega dell’armata, e l’ordinarono nel modo col quale dovea far porto e pigliar campo. La divisero in tre squadre, per ognuna delle quali gittarono le sorti, affinché assegnata ciascuna squadra ad un capitano, tenendo l’alto non avessero

a mancare di acqua e di porti e di provvisioni nei luoghi di fermata , ed affinchè nel restante serbassero più esatta disciplina , e più facilmente obbedissero ai comandi. Dipoi spedirono innanzi tre navi in Italia e in Sicilia ad intendere quali città vorrebbero riceverli ; ed ordinarono ad esse di tornar per tempo a raggiungerli per approdare secondo gli avvisi che riceverebbero.

Dopo le quali cose finalmente gli Ateniesi sciolsero da Corfù per tragittare in Sicilia con apparato si grande, cioè con cento trentaquattro triremi in tutte» e due navi di Rodi a cinquanta remi. Di queste triremi cento erano d’Atene, sessanta leggere , e quaranta per trasportar le truppe : il restante della flotta parte era de’Chii, parte degli altri alleati ; ed avevano a bordo cinquemila cento soldati gravi fra tutti. Mille cinquecento di questi erano propio del ruplo d’Atene, con più settecento servi per combattere di sulle navi. Quaqto agli altri alleati che concorsero a questa spedizione, ottocento ne vennero vassalli d’Atene, degli Argivi cinquecento, e dugento cinquanta de’ Mantineesi co mercenari. Gli arcieri erano in tutti ottanta e quattrocento, e di questi gli ottanta erano Cretesi ; e settecento fromholieri di Rodi, e centoventi banditi di Megara armati alla leggera. Una sola nave conduceva a bordo trenta cavalieri.

Cotanta era la prima armata che navigava a questa guerra, e ad essa tenevan dietro trenta barche annonarie con viveri e panattieri e muratori e fabbri , e tutto il necessario a fabbricare, più cento legni astretti a convogliare le barche. Molti altri navigli e barche andavano spontanee di conserva coll’armata per far mercatura, e tutti insieme da Corfu tragittarono il seno ionico. Ed essendo tutta intera l’armata approdata al capo Iapigio , e a Taranto, e ovunque ciascuno potè y costeggiavano l’Italia non volendo le città riceverli nè dentro le mura nè al mercato, ma solo

permettendo loro di fare acqua e stare alla rada ; le quali cose non concessero nè Taranto nè i Locresi. Finalmente pervennero a Reggio promontorio d’Italia, e qui oramai si riunivano ; e non essendo accolti in città , acconciarono il campo al di fuori, nel luogo consacrato a Diana, ove fu loro accordato il mercato ; e tirate in sull’asciutto le navi stavano quieti. Tennero anche parola coi Regini che essendo Calcidesi dovevano aiutare i Leontini che pur erano Calcidesi ; ed ebbero in risposta ch’e’volevano starsene di mezzo, e che farebbero tutto quello di che convenissero gli altri Italiani. Frattanto gli Ateniesi pensavano quale fosse il miglior modo da seguitare per le cose di Sicilia, ed aspettavano da Egesta le navi spèdite innanzi , volendo chiarirà se veramente vi eranò quelle ricchezze, di che gli ambasciatori parlarono in Atene.

In questo i Siracusani da molti luoghi e dagli esploratori avevano già chiare notizie che la flotta era a Reggio ; e senza più dubitare attendevano con tutto l’animo a prepararsi siccome è solito in tali urgenze, e spedivano in giro ai Siculi, dove presidi, dove legati, e mettevano guarnigioni nei castelli del paese all' intorno, ed esaminavano se l' interno della città fosse in buon punto , facendo la rivista dell’armi e de’cavalli ; e tutto il restante ordinala vano come per pronta guerra , e poco meno che presente.

Ma le tre navi spedite anticipatamente, tornano da Egesta a Reggio e riferiscono agli Ateniesi non esistere il denaro promesso, e solo vedervisi trenta talenti. I generali si persero subito d’animo, si perchè avean trovato quel primo incaglio , sì ancora perchè i Regini , dai quali aveano cominciato il primo invito , non avean voluto unirsi eoa loro, quantunque ciò dovea grandemente sperarsi per esser consanguinei co’L^eontini, e con essi in amicizia. Tali nuove degli Egestei furono per Nicia quali se le aspettava, ma per gli altri due generali furono fuor dell’opinione. Imperciocché

gli Egestei, quando andarono ad essi i primi ambasciatori ateniesi per osservarne le ricchezze, usarono quest’ inganno. Li condussero ad Enee nel tempio di Venere, e mostrarono loro i voti, le tazze , i vasi, gl’ incensieri e gli altri molti arredi, che essendo d’argento facevano di sé troppo gran mostra di ricchezza, rispetto al poco valore di essi, E negli inviti ospitali che facevano i particolari a quei delle triremi, riunivano tutti i vasi d’oro e d’argento che erano in Egesta, ed eziandio quelli chiesti alle città vicine fenicie e greche, e li producevano nei conviti, come se appartenessero a ciascuno in privato. Cosicché usando tutti ordinariamente dei medesimi, e però vedendosene molti da per tutto, indussero grande stupore negli Ateniesi andativi sulle triremi, i quali giunti ad Atene divulgarono aver viste ricchezze inestimabili, lu questo modo ingannati costoro, e persuasi gli altri del medesimo inganno, allorché andò ]a voce non esservi denari in Egesta, erano vituperati grandemente dai soldati. Ma i generali andavano deliberando del presente stato di cose.

La mente di Nicia era doversi navigare con tutta Tarmata a Selinunte, ove principalmente erano inviati ; e se gli Egestei somministrassero il denaro per tutto l’esercito governarsi secondo quello ; altrimenti esiger da loro il foraggio per le sessanta navi richieste , fermarsi a Selinunte, riconciliarla con gli Egestei o per forza o per accordo, e allora scorrere per le costiere delle altre città, e mostrare così la potenza della Repubblica ateniese. Quindi, fatto conoscere il proprio zelo per gli amici e confederati, tornare a casa ; salvo che nel caso di potere in breve tempo e per qualche imprevista opportunità recar giovamento ai Leontini, o farsi amica alcuna delle altre città ; e così non spendere del suo con pericolo della Repubblica.

Alcibiade all’opposto diceva che dopo essersi messi in mare con sì grossa armata, non volevasi partire

turpemente e senza effetto, ina si spedissero araldi varie città (tranne Seimunte e Siracusa), si tentassero animi dei Siculi, parte per ribellarli ai Siracusani, j» per farseli amici acciò si ottenessero soldati e frumenl si cominciasse dal persuadere Messina situata acconc mente per passare ed approdare in Sicilia, e fornita porto e di ricovero sufficiente per l’armata; e procacciai l’amicizia delle città, e sapendo con chi ciascuna si nnireb alla guerra, si andasse subito contro Siracusa e Selinnnti ove questa non si accordi con gli Egestei, e l’altra non pi inetta ai Leontini di rimpatriare.

Lamaco poi diceva apertamente che bisognai navigare a Siracusa, e combatter prontamente la ritti ma tre è tuttora sprovviste e nel massimo sbigottimento : « ogni esercito essere alla prima formidabile ; se poi indugi’ a mostrarsi, la gente ripiglia cuore, e quando si mostrilo dispregia maggiormente; che se assalissero all1 improvvise i Siracusani mentre attoniti ciò si aspettano, affermava che facilmente li vincerebbero, e ad ogni modo gli spaventerebbero coll’aspetto dell’esercito (che certo ora comparirei), grandissimo), e coll’espellati va de’danni che avranno a soffrire , e soprattutto col subitaneo pericolo della battaglia. Soggiungeva che senza dubbio avrebbero sorpresa moto gente alla campagna , perchè non si credeva alla loro venuta ; e dato anche che si ricovrassero entro le mura, l'esercito, padróne del territorio, non mancherebbe del bisognevole quando si fermasse all’assedio della città. Allora gli altri Siciliani tanto più ricuseranno di unir le armi loro co Siracusani, e si accosteranno agli Ateniesi senza aspettar di vedere qual de’due ottenga vittoria. Finalmente diceva che in caso di doverne partire e mettersi all’ancora, doveasi aver per sicuro ridotto alle navi Megara, luogo abbandonato e poco lontano da Siracusa, si per mare che per terra.

Quantunque Lamaco avesse parlato cosi, pure si ??costò anch’egli al consiglio di Alcibiade , il quale dipoi ??dò colla sua nave a Messina, e parlò dell’alleanza coi Messinesi. E perchè non gli potè persuadere, ed anzi gli fisserò chiaro che non riceverebbero gli Ateniesi in città, e solo al di fuori gli accorderebbero il mercato, ritornò a Reggio. I generali, armate subito tra tutte sessanta navi e sreso il bisognevole, passarono a Nasso, lasciando in Reggio uno di loro col resto dell’armata. Accolti in città dai Nassii seguitarono il corso verso Catana ove dai Catanesi ion furono ricevuti, perchè in città vi erano dei fautori li Siracusa, e vennero al fiume Teria e vi pernottarono.

Il giorno dopo colle altre navi attelate in una sola fila si jwiarono verso Siracusa ; e già ne aveano spedite innanzi dieci perchè nel loro corso osservassero se alcun naviglio fosse tirato in mare, e perchè avanzandosi dappresso bandissero da bordo , che arrivavano gli Ateniesi a rimettere nella patria i Leontini per titolo d’alleanza e parentela ; e die però quanti Leontini si trovavano a Siracusa si accostassero senza timore agli Ateniesi come ad amici e benefattori. Avendo bandito ciò, esaminarono la città ed i porti ed il paese all’ intorno, per vedere donde avessero a muovere le armi, e rinavigarono a Catana.

I Catanesi teuuta adunanza non vollero dar ricovero all’esercito in città, ma introdotti i generali intimarono loro di dire quel che volessero. Ed essendosi Alcibiade iàtto a parlare, tutta la gente di città si rivolse verso l’assemblea ; per lo che i soldati furtivamente sfondarono una postierla mal rimurata, ed entrati in città si fermarono aeUa piazza. Laonde que’ pochi tra’ Catanesi che pareggiavano per Siracusa, impauriti subito oltre modo al veder dentro l’esercito, si trafugarono; e gli altri fermarono alleanza cou gli Ateniesi, e gli confortarono di condur da Reggio il rimanente dell’esercito. Dopo di che gli

Ateniesi navigarono a Reggio, donde con tutto l’esercito si mossero alla volta di Catana , ed arrivati che furono vi piantarono il campo.

Ivi avendo avuto nuova da Camarina che se andasser colà quella città si renderebbe, e che i Siracusani allestivano la flotta, andarono prima con tutta l’armata a Siracusa. E non trovandovi veruno apparecchio di navi tornarono indietro a Camarina, fermaronsi al lido e spedirono un araldo che da’Camarinesi non fu ricevuto, allegando il giuramento di non raccettare gli Ateniesi se non con una sola nave, tranne il caso che ne avessero chiamati di più essi medesimi. E però andata a vuoto la cosa gli Ateniesi partirono, ed approdarono ad una terra del siracusano e vi fecero saccheggio ; ma poi sopraggiunta la cavalleria de’ Siracusani, che uccise alcuni soldati leggeri qua e là sparsi, si ricondussero a Catana.

Colà trovarono la nave salaminia venuta da Atene per Alcibiade, coll’ordine ch’ei tornasse a difendersi di ciò onde la città lo accusava', e per alcuni altri soldati del suo seguito, parte designati come profanatori de’misteri, parte come complici nel fatto de’Mercuri. Imperciocché dopo la partita della flotta gli Ateniesi non si erano rimasti dal far ricerca quanto al delitto de’misteri e de’Mercuri; e qualunque fossero gli accusatori, in mezzo a quei sospetti, tutti gli udivano. Cosicché dando fede a gente malvagia, i più onesti cittadini arrestavano e imprigionavano, stimando meglio investigare e chiarirsi di questi fatti, di quello che l’accusato (fosse egli pur creduto dabbene) avesse ad uscirne impunito, considerata la malvagità del delatore. Ed il popolo che sapeva per udita come la tirannide di Pisistrato e dc’suoi figli si era da ultimo resa grave , e di più era stata abbattuta non dai cittadini o da Àrmodio ma dagli Spartani, temeva sempre e sospettava di tutto.

Ed invero Aristogitone ed Armodio si accinsero a quelFardito fatto a causa d’un’avventura amorosa, col narrar la quale stesamente, io intendo di mostrare che nè gli altri nè gli stessi Ateniesi nulla raccontano di esatto intorno ai loro tiranni ed a questo avvenimento. Dico adunque che venuto a morte Pisistrato già vecchio e in possesso della tirannide, gli successe nel comando non Ipparco, come si crede generalmente, ma Ippia fratello maggiore ; e che allora essendo Armodio in Bore di bellezza e gioventù, di lui innamorossi un tale Aristogitone cittadino di mezzana condizione che presso di sè lo teneva. Armodio poi tentato inutilmente da Ipparco di Pisistrato, riferì la cosa ad Aristogitone, il quale fuor di modo punto d'amore, e temendo che Ipparco usando di suo potere non avesse ad indurvelo a forza, con quel credito che godeva disegnò subito di abolir la tirannide. Frattanto Ipparco tentato nuovamente Armodio e sempre senza prò, si preparava ad oltraggiarlo in un modo coperto, senza parer di farlo per quella sua repulsa, siccome quegli che non voleva usar violenza. Conciossiachè nel resto di suo governo non era grave al popolo, ma si diportava senza mal contento de’ cittadini : e certamente tutti quei tiranni esercitarono lungamente virtù e prudenza. E benché esigessero dagli Ateniesi solo il ventesimo delle rendite, pure adornarono in bel modo la città , ed amministrarono le guerre e i sacrifizi nei templi. Del rimanente la città usava le leggi stabilite di prima, se non che essi si davano cura che fosse» sempre in carica qualcuno de’suoi. E tra gli altri che ebbero in Atene la carica annuale di arconte fu ancora Pisistrato figliolo d' Ippia stato tiranno, e chiamato col nome stesso dell' avolo ; il quale , quando era arconte , inalzò nella piazza l’altare de’dodici Dei e quello d’A pollo nel luogo sacro ad Apollo Pitio. Ed in seguito il popolo d’Atene fatta un’ aggiunta con cui estese l’altare della piazza ,

cancellò l’appostavi iscrizione ; ma quella d’Àpollo Pitio si scorge ancora, sebbene con caratteri sparuti, e dice cosi:
Figlio d' Ippia Pi «strato nel luogo Sacro ad Apollo da Piton nomato Di suo governo tal memoria pose.

Che poi Ippia come maggiore avesse il comando posso io accettarlo sapendolo anche d’udita più esattamente degli altri ; ed ognuno dovrà andarne convinto da questo, che tra’ fratelli legittimi solo egli apparisce aver avuto figlioli, come mostra l’ara e la colonna eretta nella rocca d’Atene in memoria della iniquità de’ tiranni, nella quale non è descritto alcun figlio nè di Tessalo nè d’ Ipparco, ma bensì cinque d’Ippia che egli ebbe da Mirrine figliola di Callia d’Iperochida. E certo Ippia come maggiore dovea essere il primo ad ammogliarsi. Inoltre nella prima colonna egli è notato il primo dopo suo padre, nè senza ragione, avvegnaché fosse il maggiore e gli succedesse nella signoria. Anzi per me credo che Ippia non avrebbe potuto in quel frangente ritener con facilità il dominio, se Ipparco fosse morto quando avea nelle mani il comando» ed egli vi si fosse stabilito il giorno medesimo. Ma all'opposto per l’uso che innanzi aveva del comando, e pel timore che di sè metteva nei cittadini ; e per la diligente guardia de’ suoi satelliti, avrà con tutta sicurezza ritenuto l’imperio ; nè qual fratello minore si sarà trovato avviluppato , come se di prima non fosse stalo avvezzo continuamente al governo. Ipparco poi accadde che diventò famoso per la sventura di quel caso, ed ebbe voce tra’ pòsteri di occupata tirannia.

Ipparco adunque, siccome aveva inanimo, fece oltraggio ad Armodio, che non aveva aderito alle sue instigazioni, in questo modo. Invitarono ima sorella di luya venire a portare la cestella in una tal pompa, e poi la discacciarono

dicendo non averla mai invitata siccome quella che n'era indegna ; lo che dispiacque forte ad Armodio, e pia di lui ne restò esacerbato Aristogitone per l’amore che gli aveva. E già avevano essi ordinato co? loro complici ogni altra cosa spettante al fatto ; se non che aspettavano ie grandi feste Panatenee, nel qual giorno solo la riunione de’cittadini armati ad accompagnare la pompa non dava materia di sospetto. Armodio ed Aristogitone doveano dar la mossa, e gli altri si sarebbero subito uniti ad aiutarli, per difenderli dai satelliti. Kè i congiurati erano molti per riguardo alla propria sicurezza, imperocché speravano che anche gli altri i quali non erano a parte della congiura, trovandosi armati, al più piccolo romore si sarebbero subito uniti cupidamente a mettersi in libertà.

Venuto il di della festa, Ippia accompagnato . daìle sue guardie disponeva fuori di città, nel cosi detto \ Ceramico, il modo col quale dovea procedere ciascuna cosa ; destinata per la pompa ; ed Armodio e Aristogitone con dei pugnali si avanzavano per fare il colpo. Ma vedendo : uno dei loro congiurati parlar familiarmente con Ippia, che con tutti era di facile abbordo, impaurirono e si tennero ^scoperti e poco meno che arrestati.'E però prima di esserlo in effetto determinarono, se possibil fosse, di vendicarsi d' Ipparco che gli aveva offesi, e per cui arrischia vano tutto. Onde senza più, corsi dentro la porta s’imbatterono in Ipparco presso il cosi detto Leocorio, e posto giù ogni riguardo tosto l'assalirono; e spinti entrambi dal più gran furore, questi per gelosia, quegli per l’oltraggio, lo feriscono e l’uccidono. Aristogitone si sottrasse subito alle guardie per essere accorsa gran folla, ma poi fu arrestato e non la passò troppo leggermente : Armodio restò ucciso in sul fatto.

Riferita la cosa ad Ippia nel Ceramico, egli, prima che nulla ne traspirasse, essendo il luogo a qualche distanza

, si portò subito non dove era seguita la cosa, ma verso i cittadini armati, che dovevano accompagnare la pompa. E compostosi in volto in modo da uon dare indizio del misfatto, additò loro un luogo, e ordinò che lasciate le armi vi si recassero. Infatti i cittadini credendo che egli avesse qualche cosa a dire vi andarono; ed allora lppia fatte prender quelle armi dalle sue guardie, ne arrestò quanti stimava complici della congiura , e quanti vi si trovavano col pugnale , avvegnaché tali pompe si solessero accompagnare solamente collo scudo e coll’asta.

In tal maniera questa trama prese cominciamento da un disgusto amoroso , e lo sconsigliato ardire di Armodio ed Aristogitone da quel forte ed improvviso timore. Dopo questo fatto la tirannide si fece più grave agli Ateniesi. Ed lppia impaurito maggiormente fece morire molti cittadini, e portava il suo sguardo al di fuori per vedere di trovare da qualche parte di che assicurarsi, se mai succedesse una rivoluzione. Però dopo questo caso sposò la sua figliola Archedice con Eantide d’Ippocle tiranno di Lamsaco (egli ateniese con uno di Lamsaco) perchè sapeva tal famiglia essere assai potente presso il re Dario. E vi è in Lamsaco il monumento di lei con questa iscrizione :

Tal polve copre Archedice, la figlia d'Ippia, a’suoi dì fra tulli i Greci il primo;

Che sebbene di regi e figlia e suora E sposa e madre non ne andò superba. lppia tenne ancora tre anni la tirannia d’Atene ; il quarto anno ne fu spogliato dai Lacedemoni e dai banditi discendenti d’Alcmeone , e con salvocondotto si ritirò a Sigeo, quindi a Lamsaco presso Eantide, e di lì presso il re Dario, donde vent’anni dopo già vecchio partissi, e coi Medi militò a Maratona.

Le quali cose considerando il popolo ateniese, e rammemorandone tutte le circostanze che sapeva d’udita,

era allora fiero e sospettoso con gl’imputati della profanazione dei misteri, e credeva tutto ciò essersi commesso per cospirazione di stabilire l’oligarchia od anche la tirannide. E adirati come erano per questo appunto, avevano già nelle carceri molti e de’più reputati cittadini, nè pareva che volessero far sosta; ma ogni giorno montavano in più ferocità, e più gente ancora arrestavano. Frattanto uno dei detenuti creduto colpevolissimo viene indotto da un altro imprigionato insiem con lui a dinunziare i complici (fosse vero o no , che vi sono congetture prò e contro , e nessuno nè allora nè poi può dir nulla di certo intorno ai rei del misfatto}, e ve lo induce col dirgli che anche non reo doveva prendere l' impunità e salvarsi, e liberare la città dai presenti sospetti ; essendoché più sicuramente egli avrebbe salvezza confessando con l' impunità, di quello che negando subire il giudizio. Allora egli scuopre sè ed altri rei del fatto de’Mercuri ; e il popolo ateniese contento d’aver saputo il vero , come credeva, laddove prima era indispettito del non conoscere gl' insidiatori del governo democratico, mise subito in libertà il delatore e con esso tutti gli altri da lui non accusati. E fatto il giudizio degl’ incolpati, uccisero tutti quelli che poterono arrestare, e bandirono una taglia per chi ammazzasse quelli che condannati a morte erano fuggiti. In questo modo restò incerto se i giustiziati furono o no puniti ingiustamente ; nulladimeno il rimanente della città ne risentì evidentissimo vantaggio.